Se il buongiorno si vede dal mattino, io non dovrei nemmeno alzarmi.

Vorrei svegliarmi lentamente, quando tutte le cellule del mio corpo hanno riposato a sufficienza.

Invece no: il suono della sveglia arriva sempre nel bel mezzo del sonno profondo e io mi chiedo perché la sera prima sono stata così ottimista nel guardare un film oltre la mezzanotte.

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Vorrei scendere dal letto e trovare in salotto la colazione già pronta, un po’ di frutta fresca tagliata, qualche fiore. E magari anche una lettera d’amore.

Invece no, inciampo su qualche gioco lasciato per terra la sera prima, guardo sconsolata il tavolo della sala dove ci sono ancora i bicchieri di ieri (mi sono dimenticata di metterli in lavastoviglie) e in cucina nella credenza non c’è nemmeno una tazza pulita (mi sono anche dimenticata di far partire la lavastoviglie).
Rassegnata estraggo dalla lavastoviglie lo stretto necessario per la colazione e lavo tutto a mano.

Vorrei essere la Montessori che riusciva a far vestire da soli tutti i bambini già dall’anno di età.

Invece no, io devo aver fortemente sbagliato qualcosa.

Perché i miei figli, per quanto vispi e vivaci siano in presenza di altri bambini, quando si tratta di vestirsi assumono le sembianze del bradipo: la vestizione diventa così un momento che metterebbe a dura prova anche la pazienza di un monaco tibetano. E per un ignoto algoritmo, prima li sveglio, più loro sono lenti e riescono a trovare modi per perdere tempo.

Va bene il diritto dei bambini alla lentezza. Ma io allora voglio il diritto di arrivare tardi, ogni mattina.

Oppure il diritto di perdere la pazienza. E sclerare ogni tanto.